L’intervento dello storico francese Jacques Le Goff alla Festa della Storia di Bologna, L’Unità, 18 Ottobre 2006
Come il mio maestro Fernand Braudel ritengo che la storia ci appartenga e che non conoscerla significa ignorare una parte di noi stessi. Oltre ai retaggi del passato greco romano, dentro di noi e intorno a noi vivono e agiscono quelli del medioevo in cui hanno inciso profondamente la diffusione del cristianesimo e dell’Islam e le loro complesse articolazioni interne, la definizione e l’affermazione degli stati nazionali, il faticoso emergere di nuove forme di produzione e di scambio, di relazione e di comunicazione.
Del resto il medioevo è durato ben più a lungo di quanto si dice nelle scuole, nelle università e nei libri, perché si è esteso dal tardo antico fino alla rivoluzione industriale per gli aspetti economici e fino alla rivoluzione francese per quelli politici e sociali.
Per l’Italia poi la conoscenza di quel periodo è oltremodo importante perché qui è stata raccolta, custodita e diffusa l’eredità dell’antichità, poi elaborata e consegnata al resto del mondo e ai secoli successivi. L’Italia nel Medioevo divenne il centro della nuova Europa e non solo per la presenza di Roma e del papa ma anche per il sorgere di nuove entità politico-territoriali ed economiche che per la persistenza del loro rilievo e per la lor potenza articolata, composita e fieramente avversa tra l’un l’altro resero tardivo e difficile il cammino verso l’unità nazionale.
Pertanto gli italiani non si possono privare di una parte così rilevante della loro memoria, se non altro per riconquistare quel senso di fierezza nazionale e di orgoglio che tanto spesso mancano loro e per valutare meglio i tesori d’arte e di cultura che da quei tempi hanno ricevuto.
Una conoscenza della storia che lasciasse da parte Cesare, Cicerone, Francesco, Dante, Giotto, per arrivare fino a Galileo, equivarrebbe a gettare gli italiani nell’ignoranza di chi siamo e di cosa sia la loro vita.
Rimane il grande problema di come proporre e stimolare l’apprendimento della conoscenza storica e come competere con coloro che sulla storia speculano per trarne spunti con cui proporre un medioevo falso. Ma non basta lamentarsi di questi “parassiti della storia”, che, sfruttando i misteri irrisolti e l’attrattiva che essi esercitano sul grande pubblico, propinano infondate visioni fantastiche, giocano sull’equivoco e sull’invenzione.
Certo è sufficiente promuovere conferenze, pubblicare volumi, trasmettere programmi su presunti e reali misteri (Egizi, Templari, Graal,…) per riscuotere un successo pressoché certo, sottraendo così opportunità e voce alla divulgazione attendibile. Ma per questi aspetti il mondo accademico non è privo di responsabilità, del resto ben note e da ribadire, dato che è anche la sua ritrosia ad adeguare i metodi e gli strumenti di trasmissione delle acquisizioni della ricerca che lascia il campo libero ai citati fantastorici dotati almeno di un loro fascino. Quanti docenti, con un evidente fraintendimento del loro ruolo, considerano ancora la didattica e la divulgazione aspetti secondari e perfino compromettenti.
Le opportunità di comunicazione e di trasmissione offerte dalla innovazione tecnologica non possono ridursi in effettiva crescita e diffusione di conoscenza, se la loro divulgazione non viene sottoposta al vaglio della più rigorosa correttezza metodologica e non si attiene alle reali acquisizioni della ricerca.
L’attrattiva esercitata dalla pubblicistica letteraria e cinematografica di argomento storico induce numerosi autori ed editori a speculare sul fascino della storia e dei suoi enigmi e a produrre opere che propagano inesattezze, distorsioni e manipolazioni con tale efficacia e in ambiti così ampi da generare convinzioni e teorie errate ben più diffuse delle conoscenze basate sulle acquisizioni storiografiche. Cresce così il divario e l’incomunicabilità tra ambiti della ricerca e artefici della comunicazione al punto da rendere particolarmente meritorio e auspicabile il lavoro svolto da figure impegnate con correttezza ed efficacia nella divulgazione della storia, che com’è noto sono divenuti ambiti particolarmente delicati e controversi dopo le recenti e innumerevoli distorsioni a fini commerciali.
Un esempio di parassiti? Il codice Da Vinci di Dan Brown
Codice di procedura mentale
Il Codice da VInci ha avuto un successo sbalorditivo presso il pubblico di tutto il mondo (si dice che ne siano state vendute ben 17 milioni di copie, 1.3 in Italia), e molti si sono interrogati sulle sue cause.
Non è un bel libro, neanche come libro di genere. La scrittura è approssimativa, il romanzo non ha spessore di alcun tipo, ma piace, tutti lo leggono e c’è anche chi prende sul serio le sue corbellerie storico-filosofiche. E costruito come un feuilleton, a puntate, con ricapitolazioni che spingono avanti un’azione da detection e avventura sul tema della lotta tra due organizzazioni occulte che si contendono il Santo Graal, o meglio il segreto del Graal, che sarebbe quello delle nozze, concrete, tra Gesù e la Maddalena, donna di sangue reale, e infine della supremazia dell’elemento femminile androgino su quello maschile, tanto più rilevante perché siamo all’inizio dell’Era dell’Acquario, e le chiese del Dio maschile ne tremano!
La lotta tra il Bene e il Male è tra una tradizione esoterica, quella dei Templari, e una odiatissima chiesa il cui braccio armato è l’Opus Dei. E procede per rebus, indovinelli, sciarade, enigmi di cui il lettore, spinto dall’azione, finisce per dimenticare la decifrazione, ché un mistero lava l’altro. Modello non dichiarato: il feuilleton francese anche cinematografico e televisivo, i film alla Spielberg delle Arche Perdute, tanta chincaglieria New Age e New Fantasy ma soprattutto, soprattutto, l’opera del Venerabile Maestro Eco, Il nome della rosa.
Cercar di capire come questa zavorra rimescolata a tavolino da un piccolo giocatore d’azzardo produca un best-seller di tale vastità non è facile, ma alcuni punti fermi ci sono e proveremo a elencarli disordinatamente: il disorientamento dei nuovi tempi, il bisogno di consolazioni extrastoriche e pseudoreligiose, l’antico riscatto della mediocrità delle esperienze individuali nella fantasticheria avventurosa, il rifiuto di porre le proprie speranze in un aldilà o in un’altra parte del cosmo (di cui la fantascienza muore per incapacità di ipotizzare futuri non già ipotizzati).
Infine: la delega a supernavigatori del reale che “sanno”, la spiegazione di quel che accade devoluta a forze occulte e sette iniziatiche lontane da noi, e che contemplano al loro interno Fede e Finanza.Insomma, l’abbandono della speranza di poter controllare un pò del proprio destino individuale e la necessità di dar comunque un senso alla storia di cui si è membri e, più in generale alla disfatta dell’uomo. All’assenza d’utopia del nostro Duemila Dan Brown aggiunge un intruglio di sacro e profano e la rivincita di un paganesimo da fumetto. L’unica dichiarazione di ironica autocoscienza il libro di Brown la contiene a pagina 195 quando due personaggi, parlando del Graal dicono:
“Ma con tutti quei libri sull’argomento perché la teoria (quella del Codice Da Vinci, appunto) non è conosciuta? Questi libri non possono cancellare secoli di storia, specialmente se questa storia è sostenuta dal più grande best-seller di tutti i tempi“.
“Non dirmi che Harry Potter parla del Santo Graal?“.
“Parlavo della Bibbia“.
Harry Potter appunto…
Il grande successo di fine novecento della letteratura per ragazzi, edito in Italia da Salani, cui solo la serialità toglierà forse la collocazione tra i classici del genere, che non sono tantissimi e che, non a caso, vanno bene anche per gli adulti. Ma i romanzi della inglese signora Rowling hanno una qualità di scrittura, una comprensione del bisogno di fantasia dei ragazzini del nostro tempo, un senso della tradizione e un rispetto della cultura e delle sue responsabilità che non appartengono affatto all’americano signor Brown. Anche la Rowling è debitrice delle voghe new age, ma il suo mondo è decisamente altro, è memore di Peter Pan e di Mary Poppins, del fantastico che si dà per fantastico e non per rivelazione di ciò che si nasconde dietro la realtà, di interpretazione della Storia. Il mondo del reale non ci basta e non basta soprattutto ai ragazzini – i piccoli, ma più ancora quelli nell’età della pubertà, la più solitaria e difficile che ci sia – e allora: che il fantastico sia fantastico per davvero, che non si inquinino e che si colleghino i due mondi con la sensibilità (e la responsabilità e il rispetto) che sono appartenuti ai grandi elaboratori delle fantasie letterarie più ardite, da Welles a Verne, da Collodi a Stevenson, perché qui, su questa terra i giovani lettori dovranno tornare a crescere e ad agire.
Diverso il discorso per i Poe, i Dick, i Ballard, scrittori “per adulti” e analisti del delirio, del modo morboso di vivere la realtà e le mutazioni della realtà. Nei best-seller della letteratura per ragazzi c’è più rispetto del lettore perché vi resiste ancora, nonostante tutto, una componente pedagogica, mentre quelli per adulti giocano spudoratamente la carta dell’accertazione e della deviazione; la loro “pedagogia” e adultologia è destinata al puro commercio, e ha solo in pochi autori remore morali, preoccupazioni altre che il successo.
Tanti celebrati inventori di storie non sentono affatto la responsabilità che dovrebbe venir loro proprio dal successo, dalla capacità di cogliere i nodi di frustrazioni, debolezze, aspirazioni delle cosiddette “masse”. I più colorano di rosa la realtà, ma la schiera degli “spaventatori” aumenta, col noir e l’horror e altri derivati e commistioni. Ma forse i più ambigui – non meno bravi nel produrre la loro merce – sono quegli autori che ancora una volta, borghesemente, come al tempo di Conan Doyle e di Agatha Christie, giocano col crimine e si mettono dalla parte di un discutibile Bene ma affascinati da un ben concreto Male.
Si ha l’impressione che si legga di più, oggi; e che si legga di peggio, che la letteratura sia tornata ad essere soltanto un’evasione dalla mancanza di prospettive della realtà, che il suo aspetto di intrattenimento sia oggi meno innocente di ieri, più equivoco, più compromesso con le ideologie che confermano la nostra passività al peso del potere, più consono alla volontà di addormentare che a quella di ridestare. Perché il “popolo” non è più fatto di ceti sociali definiti, ma una montagna di consumatori solitari e non può più imporre i suoi gusti, ma solo farseli imporre.
Goffredo Fofi, “Codice” di procedura mentale, Il Sole-24 Ore, n. 36, 6 febbraio 2005, p. 34