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Petrolio – Picco dei prezzi o delle quantità?

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Esistono due scuole di pensiero per spiegare il petrolio a 120 130 dollari al barile. La prima imputa ai mancati investimenti ed alle speculazioni sui mercati l’attuale record del prezzo; la seconda ritiene che non si tratti di limiti tecnico-economici ma fisici, poiché i pozzi “facili” sono in via di esaurimento e l’offerta si sta avviando ad una fase di declino.

A fine aprile 2008 il prezzo del greggio ha raggiunto la soglia dei 120 dollari al barile. Le ripercussioni dei continui rincari del petrolio sull’andamento dell’inflazione e sulla crescita economica sono causa di preoccupazione diffusa, poiché il costo del petrolio incide sui costi di produzione di tutte le merci: direttamente, come materia prima nei processi produttivi e, indirettamente, attraverso il costo dell’elettricità.

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Negli ultimi anni, si è sviluppata una domanda supplementare di petrolio (Cina, India e Brasile in primis) che “brucia” rapidamente la produzione proveniente da un sistema di raffinerie operante al massimo della capacità. Il mercato del petrolio si trova quindi in una fase di domanda tesa, cui si deve aggiungere il forte apprezzamento dell’euro sul dollaro statunitense. Il rapporto delle monete riflette lo stato dell’economia americana, di cui proprio il petrolio (oltre alla crisi dei mutui) potrebbe rappresentare uno dei fattori determinanti. La produzione statunitense di greggio, infatti, è in calo da anni e molti paesi produttori tendono a contrattare il proprio greggio in una valuta diversa da quella statunitense.

Due visioni contrapposte si fronteggiano per spiegare l’attuale prezzo dell’oro nero: la prima, sostenuta dal mondo delle compagnie petrolifere, dal Governo USA e dall’Agenzia Internazionale dell’Energia, pone al centro del problema i meccanismi del mercato libero per la formazione del prezzo, spiegando il fenomeno con un mercato che, pur con riserve sufficienti, nell’attuale fase di tight demand è limitato dalla capacità di estrazione e raffinazione. La seconda, che basa la sua analisi sulla fisica e sulla geologia, evidenzia il progressivo esaurimento dei principali giacimenti e si sofferma sulla crescente scarsità di risorse cui i principali paesi industrializzati dovrebbero iniziare a far fronte senza indugio.

Secondo la prima ipotesi, i principali fattori esplicativi dell’aumento dei prezzi, sono: 1) la capacità produttiva inutilizzata (spare capacity), per far fronte a picchi improvvisi della domanda o a interruzioni inattese dell’offerta, che, oggi, non supera il 4% dei consumi mondiali; 2) la situazione geopolitica: ogni crisi che coinvolga un paese produttore crea panico nei mercati (a questo si aggiunga la politica nazionalista del Venezuela di Chavez ed il conflitto nel Delta del Niger); 3) gli incidenti, il rischio attentati, gli uragani, etc. sono fattori che possono influenzare il mercato cartaceo del petrolio, composto sia da agenti che agiscono per coprirsi dal rischio di rialzi del prezzo, che da operatori pronti a scommettere sugli andamenti futuri per realizzare una speculazione a breve, utilizzando strumenti complessi di finanza derivata.

Le variabili sopramenzionate, con le compagnie petrolifere attualmente impegnate nei più grandi investimenti degli ultimi 40 anni, sono destinate a migliorare, con centinaia di giacimenti in via di sviluppo e molte raffinerie in costruzione. La prima scuola di pensiero ritiene 120 dollari al barile un picco del prezzo e, ricordando come fosse arduo, dalla seconda metà degli anni ’80 e per tutti gli anni ’90, convincere gli investitori che l’allora sovrabbondante disponibilità di petrolio sarebbe finita se non si fossero fatti investimenti in esplorazione e sviluppo di nuovi giacimenti, cerca di trasmettere segnali positivi riguardo alla disponibilità futura dell’oro nero. In questo scenario, nel 2008, si dovrebbe registrare una flessione delle quotazioni del greggio, alimentata dai venti di recessione che agitano le economie di Stati Uniti ed Europa.

I fautori della teoria del picco delle quantità si fondano sulla metodologia sviluppata dal geologo statunitense King Hubbert che opera un confronto quantitativo tra nuove scoperte e produzione di petrolio. Hubbert, considerando le specificità della produzione petrolifera, teorizzò la predicibilità del tempo che intercorre tra il picco di nuove scoperte e quello della massima produzione; calcolando che le scoperte di nuovi giacimenti negli Stati Uniti avevano raggiunto il picco nel 1930, predisse, nel 1956, che la produzione statunitense di petrolio avrebbe raggiunto il massimo nel 1970. La previsione si rivelò esatta. A livello mondiale, si stima che le scoperte di nuovi giacimenti abbiano raggiunto il picco negli anni ’60 (i venti principali giacimenti sono stati scoperti tra il 1917 ed il 1979) e, dal 1984, la produzione totale di petrolio ha superato quella delle nuove riserve scoperte. Nel 2006, con 31 miliardi di barili estratti, sono state superate le nuove scoperte di 9 miliardi di barili.

E’ possibile operare una ripartizione a seconda che la produzione annuale sia in diminuzione, in crescita o stabile. Il risultato (vedi tabella) permette di cogliere un dato di sintesi: la maggior parte della produzione di petrolio (oltre il 60%) proviene da paesi in cui il picco è passato o in corso; conseguentemente, la produzione mondiale non dovrebbe aumentare in futuro.

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I teorici del picco delle quantità sottolineano come un petrolio “caro” abbia dei lati positivi perché: 1) permette di incorporare le esternalità causate dai combustibili fossili, come i cambiamenti climatici e l’inquinamento; 2) spinge ad una maggiore efficienza e parsimonia nell’uso di una risorsa preziosa e finita. Secondo questa scuola di pensiero, però, i prezzi alle stelle potrebbero causare gravi dissesti all’economia mondiale, specialmente in quei paesi dove elettricità e trasporti sono fortemente dipendenti dai combustibili fossili. Secondo i teorici del picco delle quantità, la questione, al pari dei cambiamenti climatici, deve essere messa in cima alle agende dei governi dei paesi industrializzati, al fine di avviare una serie di misure strutturali volte a ridurre la dipendenza da petrolio, ripensando il nucleare sicuro e incoraggiando le fonti rinnovabili. Si tratta, in sintesi, di avviare un processo di transizione in grado di condurre a cambiamenti profondi nei consumi e nel modo di vivere.

In conclusione, il dibattito sulle cause dell’aumento del prezzo del petrolio appare aperto quanto le previsioni sulla produzione petrolifera, mentre appare sempre più realistica la possibilità di un forte rallentamento dell’economia mondiale che, riducendo la domanda, potrebbe condurre ad una relativa riduzione del prezzo. Una recessione economica, ad esempio, libererebbe a forza il mercato dalle componenti irrazionali e speculative del prezzo del petrolio.

[Questa – col senno di poi – era profetica…] feb-09

Seguendo le tesi dei sostenitori del picco dei prezzi, al contrario, non sussisterebbero limiti immediati e vincolanti dal lato dell’offerta. Secondo questa tesi, gli investimenti necessari sono in via di realizzazione e consentiranno, a breve, l’auspicato aumento della capacità di raffinazione, soddisfacendo la domanda in continua crescita. Questa scuola di pensiero ritiene che sia ancora lontana una vera e propria crisi della risorsa petrolio. Secondo i sostenitori del picco delle quantità, invece, non ci sono più margini per agire dal lato dell’offerta: molti paesi produttori hanno già raggiunto il picco di produzione e si stanno avviando, più o meno rapidamente, verso il declino. Di conseguenza, se non si inciderà strutturalmente sui consumi, le quotazioni del petrolio greggio sono destinate a rimanere su livelli elevati e, presumibilmente, ad aumentare nei prossimi anni.

L’era del dopo petrolio è già alle porte e non c’è tempo da perdere.

Ciascuna scuola sembra, dunque, portare validi argomenti di riflessione, che saranno oggetto di un dibattito destinato a continuare nei prossimi anni. Entrambe le tesi non escludono il perdurare di una diffusa e crescente incertezza ed instabilità, che dovrebbe essere accompagnata (soprattutto per i sostenitori della seconda scuola di pensiero) da un sensibile aumento dei prezzi del petrolio.

Appare evidente che gli anni a venire richiederanno un ruolo più attivo delle istituzioni, internazionali, nazionali e locali. Infatti, solo il settore pubblico può mettere in campo fondi e competenze atte a governare la transizione della società verso una riduzione dei combustibili fossili. Saranno, in primo luogo, necessari programmi ben definiti per la mobilità, che favoriscano il trasporto pubblico, elettrico e ciclabile (inclusa l’intermodalità), e per l’efficienza energetica che, favorendo l’innovazione e la concorrenza, garantiscano la sostenibilità globale dell’energia e dei materiali impiegati nel processo economico.

Originale (a pag 25).

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