Giordano Bruno La falena dello spirito
Questo è il capitolo finale de La falena dello Spirito di Anacleto Verrecchia.
Il filosofo
Veri saggi sono quelli che vedono con lo stesso occhio un brahmano coronato di sapienza e di umiltà Una mucca, un elefante, un cane. Io sono identico a tutti gli esseri. Bhagavad Gita v, 18 e IX, 29
L’esplosiva attività di Bruno non durò che un decennio. Poi, quando egli aveva appena quarantaquattro anni, la Chiesa gli spezzò brutalmente la penna e la vita. Pur in così breve tempo, scrisse moltissimo. Se si contano tutti i suoi scritti, compresi quelli che non ci sono pervenuti, abbiamo una cinquantina di titoli. Ci sarebbe da rimanere sbalorditi, se non conoscessimo la sua potenza intellettuale. Già solo l’avergli fisicamente impedito di continuare a scrivere, quando egli era nel pieno delle forze e poteva dare il meglio di se, costituisce un delitto che la cultura non potrà mai perdonare alla Chiesa cattolica.
I suoi libri non sono proprio di facile lettura, sia per gli argomenti che trattano, sia per la prosa rupestre in cui sono scritti. Conviene ripeterlo: perseguitato e sempre alle prese con i bisogni primari della vita, il filosofo doveva fare come la marmotta, che con un occhio guarda l’erba da brucare e con l’altro i pericoli che la circondano. Per dirla con un proverbio piemontese, doveva allo stesso tempo cantare e portare la croce. In tali condizioni, è facile a capirsi, egli era costretto a scrivere di getto e senza badare troppo alla forma. Non ebbe mai né il tempo né la tranquillità per rivedere e limare la pagina scritta. Così si spiegano certe asperità e certe prolissità. Bisogna anche dire, però, che egli era tanto moderno nelle intuizioni scientifiche e filosofiche quanto antiquato nella scrittura. Qui mi riferisco beninteso, solo agli scritti italiani, che costituiscono meno di un terzo della sua produzione letteraria. Eppure le sue opere più importanti, come alcuni dei dialoghi italiani scritti a Londra e i poemi latini pubblicati a Francoforte sono, almeno in parte, dei capolavori anche dal punto di vista stilistico e contengono passi di grande bellezza.
La nuova edizione critica, che esce presso Les Belles Lettres di Parigi, dovrebbe raccogliere tutti gli scritti del filosofo, latini e italiani. Ogni volume reca il testo originale con traduzione francese a fronte. Così chi non legge il latino o trova troppo accidentato l’italiano di Bruno può sempre aiutarsi con la traduzione francese. A questo punto va detto che gli stranieri sono in un certo senso avvantaggiati rispetto agli italiani, in quanto leggono Bruno in traduzione. Ma guai se uno, da noi, si permettesse di aggiornare leggermente la sua scrittura, cosa che in Germania fanno anche con autori del Settecento. I pedanti griderebbero subito allo scandalo. Vanno invece in estasi se riescono a stabilire che nelle prime stampe delle opere di Bruno c’è scritto meglo e non meglio, meglore e non migliore, cqui e non qui; e riproducendo tale grafia fanno passare il flagellatore dei pedanti per pedante a sua volta. Si legga ciò che scrive, a questo riguardo, Giovanni Gentile, il quale sferza come si deve queste forme di pedanteria (OI, I, introduzione). Bruno dev’essere letto da un vasto pubblico, non solo dai pedanti. E non si dimentichi che egli stesso diceva che tutto il sapere deriva dalle traduzioni.
Ritornando all’edizione delle Belles Lettres, si noti la coincidenza: fu a Parigi che Bruno incominciò la sua avventura intellettuale ed è di nuovo a Parigi che la ricomincia in grande stile. Con quest’edizione la città che lo tenne a battesimo come scrittore ora lo consacra e lo raccomanda al mondo. Vorrei però fare un appunto: lo scopo delle edizioni critiche dovrebbe essere quello di ricostruire il testo originale purificandolo da eventuali incrostazioni, e di renderlo più comprensibile al lettore. Ma oggi si ha l’impressione che chi cura tali edizioni pensi a mettere in mostra più se stesso che l’autore: introduzioni che non finiscono mai, note straripanti e commenti superflui. Questo significa sovrapporsi all’autore e disorientare l’attenzione del lettore. Apprezziamo le fatiche dei filologi, ma noi vogliamo leggere Bruno e non loro. Certi glossatori fanno venire in mente la cùscuta, la pianta parassita che si attacca alle altre e le soffoca.
Del filosofo ci restano una trentina di titoli che si possono classificare in scritti lulliano, scritti mnemonici, scritti didattici, in quanto esprimono dottrine di altri pensatori, e scritti cosiddetti di magia: tutti in latino. Alcuni sono stati scoperti e pubblicati in epoca recente dall’infaticabile Giovanni Aquilecchia, che ha passato una vita a studiare Bruno. Poi abbiamo gli scritti morali: Spaccio della Bestia Trionfante, Cabala del Cavallo Pegaseo, De gli eroici furori. Infine ci sono le opere più propriamente filosofiche: La cena delle ceneri, De la Causa, De l’infinito, più i tre poemi pubblicati a Francoforte. La commedia Candelaio sta a se, mentre l’Oratio valedictoria e l’Oratio consolatoria possono essere considerate scritti d’occasione. Va anche detto che le opere italiane di Bruno sono il primo esempio in Europa di prosa filosofica in volgare, anziché in latino. Probabilmente il filosofo era dell’idea che un nuovo modo di pensare esigeva anche una lingua nuova. Mn poi ritorno al latino.
Già da questo elenco sommario, che non comprende i titoli delle opere andate perse, ci si può fare un’idea di quanto vasta fosse la gamma dei suoi interessi, che avevano però una nota fondamentale comune: l’espansione dionisiaca nell’infinito. Proprio l’amore della vita e della sua potenza dionisiaca gli rese insopportabile il chiostro, cui allude in uno dei tre bei sonetti premessi all’opera De l’infinito universo e mondi:
«Uscito de priggione angusta e nera,
Ove tant’anni errar stretto m’avinse,
Qua lascio la catena, che mi cinse» (OI, I, 364).
Lo storico della filosofia Nicola Abbagnano scrisse che l’interesse di Bruno per la natura nasce dal suo amore per la vita. E aggiunge che tale interesse «si esaltò in un impeto lirico e religioso che trovò spesso espressione nella forma poetica». Per lui la natura è tutta animata. E proprio «nell’intendere questa universale animazione, nel proiettare la vita nell’infinità dell’universo, pose il termine più alto del suo filosofare. Di qui la sua predilezione per la magia che si fonda appunto sul presupposto del pampsichismo e vuole conquistare d’assalto la natura come si conquista un essere animato [ … ]. Di qui ancora la sua predilezione per la mnemotecnica o arte lulliana, che ha la pretesa di prendere d’assalto il sapere e la scienza[ … ]. L’opera di Bruno segna una battuta d’arresto nello sviluppo del naturalismo scientifico; ma realizza, nella forma più appassionata e potente, quell’amore della natura che fu indubbiamente uno degli aspetti fondamentali del Rinascimento». (Storia della filosofia, Torino 1953, II, p. 121).
Va bene, però bisogna fare un passo più in là, perché Bruno suona su un registro che non è quello dell’Occidente teologizzato e storicizzato. Lui trascende il tempo e vede il mondo sub specie aeternitatis. È un illuminato o un iniziato che guarda al di là del fenomeno, dopo aver aperto con «una grande chiave» la porta della realtà occulta e profonda. È il filosofo delle grandi intuizioni metafisiche, ma anche scientifiche. Fu lui il primo ad affermare che il sole gira intorno al proprio asse, come è detto chiaramente nel De immenso (I, 5; IV, 8). Ma in questo poema, che costituisce la più completa sintesi latina del suo pensiero filosofico, Bruno fa anche importanti anticipazioni di carattere astronomico. Nessuno seppe capire Copernico meglio di lui. Insomma Bruno fu un anticipatore anche in campo scientifico. Era nato postumo, e questo spiega perché i suoi contemporanei non lo capissero. Perfino Kepler e Galilei non sapevano rassegnarsi all’idea che l’universo, proprio come aveva sostenuto Bruno, fosse infinito. Il primo ne aveva addirittura sgomento.
Esistono molte esposizioni della filosofia di Bruno. Un classico, da questo punto di vista, resta il lavoro di Felice Tocco: Le opere latine di Giordano Bruno esposte e confrontate con le italiane, Firenze 1889. Anche se ha più di un secolo di vita ed è stato per molti aspetti sorpassato da nuovi studi, esso non ha perso nulla della sua importanza. Ma per conoscere un grande filosofo bisogna leggerne le opere e non le esposizioni che ne fanno altri. Giustamente Schopenhauer dice che studiare un autore per interposta persona, cioè attraverso i riassunti o le esposizioni di un professore, è come farsi masticare da un altro il proprio nutrimento. In quest’ultimo capitolo, dunque non intendo fare alcun riassunto della filosofia di Bruno, ma soltanto mettere in risalto alcuni degli aspetti più singolari e rivoluzionari.
Nella filosofia occidentale, che spesso possiamo considerare una specie di reologia secolarizzata, c’è un errore di base: l’antropocentrismo. Difatti vi si parla solo e sempre dell’uomo, come se fosse l’unico essere vivente sotto la luce del sole. Ma Bruno non la pensa così. Per lui tutti gli esseri sono fenomeni diversi di un’unica esistenza universale; e tra la pianta, l’animale e l’uomo c’è solo una differenza di grado, non di qualità, dato che tutti traggono origine dalla stessa radice metafisica. In altre parole la differenza tra un essere e l’altro è apparente, fenomenica, non sostanziale: metafisicamente, sono la stessa cosa. In questo animismo universale non c’è posto né per la materia inanimata né per i dualismi così cari alla cultura occidentale: anima e corpo, spirito e materia, uomo e animale istinto e ragione. Ogni cosa è specchio e riverbero di tutte le altre, perché uno stesso spirito informa tutto e tutti: l’uomo come l’animale, la foglia che cresce come la pagliuzza che si raccoglie in sé per sfuggire al fuoco che la consuma, il ragno che tesse la tela come la goccia d’acqua che assume la sua forma sferica. E non è detto che l’intelligenza dell’uomo sia sempre superiore o più previdente di quella delle altre creature. Si pensi solo al miracolo della ragnatela. Istinto? Per Bruno questa e una parola stupida e non significa niente. Nella seconda parte della Summa terminorum metaphysicorum là dove parla di Differentia, egli fa l’esempio delle formiche che, guidate dalla loro intelligenza, castrano, per non farli germogliare, i chicchi di grano che hanno trasporti nelle loro gallerie: «Come nei singoli generi ci sono differenze proprie, così ci sono differenti modi di percepire e di comprendere [ … ] Con quale senso infatti la formica castra il chicco di grano affinché non germogli nella cavità sotterranea? Stupidamente si risponde: istinto della natura! Ma noi riteniamo che quell’istinto è un tipo di senso o (che è lo stesso) un grado o un ramo dell’intelligenza di cui noi siamo privi».
Così Giordano Bruno, anticipando di oltre quattro secoli Konrad Lorenz, riconosce agli animali non solo intelligenza e capacità di astrazione, ma anche una vita interiore. Se si pensa che queste cose venivano scritte e dette nella seconda metà del secolo XVI, quando l’Europa cristianizzata e dogmatizzata non riconosceva agli animali neppure il diritto di respirare, si capisce perché Bruno venisse respinto dalle università: rappresentava un pericolo mortale per la cultura ufficiale. Come potevano, i parrucconi accademici, accettare l’idea che l’animale scoiattolo o l’animale stambecco non sono essenzialmente diversi dall’animale uomo? Meno ancora potevano accettarla i chierici, non importa se cattolici o protestanti, i quali hanno sempre seguito la raccomandazione del vecchio dio biblico: «Crescete e moltiplicatevi, e popolate la terra, e assoggettatevela, e signoreggiate i pesci del mare e i volatili del cielo, e tutti gli animali che si muovono sulla terra» (Gen. I, 28). Signoreggiate, cioè opprimete, tormentate e uccidete tutti gli altri esseri viventi: parla così un dio? E non poteva anche risparmiarsele, queste parole, dopo aver «creato» un essere malvagio come l’uomo? Quale penoso contrasto con le sublimi parole che Buddha rivolse al suo cavallo, quando lo lasciò libero: «Va’! Anche tu, un giorno, sarai redento». Chi non avverte l’intima parentela tra tutti gli esseri viventi e non prova compassione per le infinite sofferenze di animali martoriati e squartati; chi, dico, non inorridisce alla vista di migliaia o milioni di mucche massacrate e magari sepolte ancora vive, come è avvenuto di recente con le cosiddette mucche pazze, dovrebbe avere almeno il pudore di non parlare di giustizia. Anche il papa di Roma, quando proclama la santità della vita, farebbe bene a spendere una parola di compassione, mettiamo, per i belli e innocenti agnelli che ogni Pasqua di resurrezione, pensate un po’, vengono atrocemente sgozzati per festeggiare il dio cristiano. Se non lo fa, allora le sue declamazioni non mi interessano. Preferisco il cinguettio degli uccelli sulle piante dinanzi alla mia finestra viennese: li trovo più eloquenti.
Schopenhauer giudicava una vergogna il passo della Bibbia che abbiamo appena citato. E lo è, infatti, così come lo è il meccanicismo degli animali teorizzato da Cartesio, secondo il quale gli animali sarebbero dei semplici meccanismi e nient’altro.
Ritorniamo subito a Giordano Bruno, morto cinquant’anni prima di Cartesio. Oltre a intuire la parentela universale di tutto ciò che vive, egli anticipa non solo l’evoluzionismo di Darwin, ma anche le teorie sulla mutazione di una specie in un’altra. Se infatti il tutto è l’uno e l’uno è il tutto; se, in altre parole, in tutto c’è lo stesso spirito vivificatore e le forme che tale spirito assume nel fenomeno sono puramente accidentali, allora è possibile che a un certo punto della spinta evolutiva un animale si trasformi in un altro. È quello che Lorenz chiama “fulgurazione”. Per Bruno il mondo non è solo un tutto vivente, ma anche un tutto in continuo e perenne moto.
Il problema del rapporto tra le anime individuali e l’anima universale, ossia dell’unità spirituale e materiale di tutti gli esseri viventi, viene affrontato soprattutto nella Cabala del cavallo pegaseo. Uno dei dialoganti dice di essere già stato in un altro corpo e prosegue:
Io privo de l’ergastulo corporeo dovenni vagante spirito senza membra; e venni a considerare come io, secondo la spiritual sustanza, non ero differente in geno, né in specie de tutti gli altri spiriti che dalla dissoluzione de altri animali e composti corpi trasmigravano; e viddi come la Parca non solamente nel geno della materia corporale fa indifferente il corpo dell’uomo da quel de l’asino e il corpo de gli animali dal corpo di cose stimate senz’anima; ma ancora nel geno della materia spirituale fa rimaner indifferente l’anima asinina da l’umana, e l’anima che costituisce: gli detti animali, da quella che si trova in tutte le cose: come tutti gli umori sono uno umore in sustanza, tutte le parti aeree son un aere in sustanza, tutti gli spiriti sono dall’Amfitrite d’un spirito ed a quello ritornan tutti (OI, 11, 883).
Poco dopo lo stesso personaggio dice che l’anima dell’uomo,
è medesima in essenza specifica e generica con quella de le mosche, ostreche marine e piante, e di qualsivoglia cosa che si trove animata o abbia anima: come non è corpo che non abbia o più o meno vivace e perfettamente comunicazion di spirito in se stesso. O cotal spirito, secondo il fato o provvidenza, ordine o fortuna, viene a giongersi or ad una specie di corpo, or ad un’altra; e secondo la raggione della diversità di complessioni e membri, viene ad avere diversi gradi e perfezioni di ingegno ed operazioni. Là onde quel spirito o anima che era nell’aragna, e vi avea quell’industria e quelli artigli e membra in tal numero, quantità, e forma; medesimo giunto alla prolificazione umana, acquista altra intelligenza, altri instrumenti, attitudini ed atti. Giongo a questo che, se fusse possibile, o in fatto si trovasse che d’un serpente il capo si formasse e si stornasse in figura d’una testa umana ed il busto crescesse in tanta quantità quanta può contenersi nel periodo di cotal specie, se gli si allargasse la lingua, ampiassero le spalle, se gli ramificassero le braccia e mani, ed al luogo dove è terminata la coda andassero ad ingeminarsi le gambe; intenderebbe, apparirebbe, spirarebbe, parlarebbe, oprarebbe e camminarebbe non altrimenti che l’uomo; perché no sarebbe altro che uomo. Come, per il contrario, l’uomo non sarebbe altro e che serpente, se venisse a contrarre, come dentro un ceppo, le braccia e gambe, e l’ossa tutte concorressero alla formazion d’una spina, s’incolubrasse e prendesse tutte quelle figure de membri ed abiti de complessioni. Allora avrebbe più o men vivace ingegno; in luogo di parlar sibilarebbe; in luogo di caminare, serperebbe; in luogo d’edificarsi palaggio, si cavarebbe un pertugio; e non gli converrebe la stanza ma la buca; e come era sotto quelle, ora è sotto queste membra, instrumenti, potenze ed atti: come dal medesimo artefice diversamente inebriato dalla contrazion di materia e da diversi organi armato, appaiono exercizii de diverso ingegno e pendono execuzioni diverse. Quindi possete capire esser possibile che molti animali possono avere più ingegno e molto maggiore lume d’intelletto che l’uomo (ibid., 885 sg.).
Insomma tutte le creature hanno un’intelligenza adatta alla loro condizione; ma la differenza è solo nel grado.
Perché il pappagallo, che pure ha «l’organo attissimo a proferir qualsivoglia voce articulata», è tanto duro e «con tanta fatica può parlar si poco, senza oltre intendere quel che dice»? Ecco la risposta: «Perché non ha apprensiva, retentiva adequabile e congenea a quella de l’uomo, ma tal quale conviene alla sua specie; in ragione della quale non ha bisogno ch’altri gl’insegne di volare, cercare il vitto, distinguere il nutrimento dal veleno, generare, nidificare, mutar abitazioni, e riparar alle ingiurie del tempo, e prevedere alle necessitadi della vita non men bene, e tal volta meglior e più facilmente che l’uomo». C’è poi la risposta all’opinione dei dotti, secondo i quali tutto questo non avverrebbe per intelletto, ma per istinto naturale: «Fatevi dire da cotesti doni: cotal istinto naturale è senso o intelletto? Se è senso, è interno o esterno? Or non essendo esterno, come è manifesto, dicano secondo qual senso interno gli [animali] hanno le previdenze, tecne [artificio], arti, precauzioni ed ispedizioni circa l’occasioni non solamente presenti, ma ancora future, meglioramente che l’uomo […]. Dico che 1a intelligenza efficiente universale è una de tutti; e quella muove e fa intendere». Come «d’una medesima cera o altra materia si formano diverse e contrarie figure, cossì di medesima corporale si fanno tutti gli corpi, e di medesima sustanza spirituale sono tutti gli spiriti» (ibid., 888 sgg.).
Considerare l’uomo qualcosa di avulso dal resto del mondo animale va forse bene in sacrestia, ma non in filosofia. È quello che pensa anche il pagano Celso, il quale scrive parole molto belle sull’intelligenza degli animali e critica anche lui il passe della Genesi. Perché, egli si chiede, un dio dovrebbe aver creato ogni cosa solo per l’uomo? In realtà “ogni cosa è nata non più per gli uomini che per gli animali privi di parola” (Celso, Contro i Cristiani, Milano 1989, p. 165). Il sole splende per tutte le creature. Se poi “gli uomini appaiono superiori agli esseri privi di parola perché costruiscono città e hanno costituzioni, magistrature e governi, la cosa non dimostra nulla. Anche le formiche e le api sono nelle stesse condizioni. Le api hanno un capo, conoscono la disciplina e lo spirito di sacrificio, la guerra, la vittoria e le stragi dei nemici sconfitti; hanno città e sobborghi, si ripartiscono i lavori e processano i pigri e i buoni a nulla” (ibid., p. 167).
Tutto ci dimostra che l’uomo è inserito nel mondo e nelle sue leggi ineluttabili. Bruno fu il primo, nella filosofia moderna, a liberarsi delle concezioni antropocentriche. Di qui il suo amore per gli animali, che condividono con noi le pene dell’esistenza. Talvolta antepone l’intelligenza degli animali a quella degli uomini, come quando ricaccia la parola istinto in bocca a chi l’adopera: “Ed anco è in mia libertà de dire che il vostro intendere non è intendere, e qualunque cosa che facciate, pensare che non sia per intelletto, ma per istinto; poiché l’operazioni de altre animali più degne che le vostre (come quelle de le api e delle formiche) non hanno [come voi dite] nome d’intelletto ma d’istinto. O pur dirò che l’istinto di quelle bestiole è più degno che l’intelletto vostro” (ibid., p. 890). E non c’è dubbio che certi animali siano davvero più previdenti degli uomini. L’esperienza insegna che tra gli animali prevalgono sempre gli individui migliori, mente tra gli uomini avviene spesso il contrario. Si vede che la legge di Darwin non vale per il genere umano, oppure che l’abbiamo sovvertita.
Bruno esce completamente dalla cultura cristiana, tanto che è stato definito un pagano costretto a errare in mezzo ai cristiani. Nell’universo infinito ed eterno da lui teorizzato non c’è posto per un dio creatore. Definirlo dunque eretico, come si fa spesso, è sbagliato. Bruno è semplicemente un filosofo che non ha proprio nulla da spartire con il cristianesimo, cattolico o protestante che sia, e in questo è diverso anche dal “divino Cusano” come lo chiama. Tra le religioni preferisce quella degli antichi egizi, così regale e solare. Ma spesso parla anche come un bramino o un buddista trapiantato in Occidente. Sentiamo Giuseppe de Lorenzo, profondo conoscitore della filosofia indiana e di quella europea:
Lo stesso Giordano Bruno, con la sua magnifica filosofia, con la nobile vita messa tutta quanta al servizio di un alto ideale dello spirito, con la magnanima rassegnazione e l’eroica fermezza mostrata nella morte, ha ben più grande affinità con gli asceti indiani e buddisti di quella che con questi abbiamo tanti santi cristiani: onde a ragione Schopenhauer poté scrivere che la patria spirituale di Bruno, di questo erede diretto di Platone non era l’Europa ma l’India, e che in scherzo poteva dirsi, che egli fosse un ‘anima di brahmano, incarnata , per qualche colpa anteriore in un corpo europeo. Veramente indiano infatti fu il suo pensier, fu la sua vita e la sua morte eroica, con la quale suggellò in maniera incancellabile la stupenda immagine, che egli aveva fatidicamente di se stesso data negli Eroici furori:
Annosa quercia, che gli rami spandi
a l’aria, e fermile radici ‘n terra;
Né terra smossa, né gli spirti grandi,
Che da l’aspro Aquilon il ciel disserra,
Né quanto fia ch’il venr’orrido mandi,
Dal luogo dove stai salda, mai ti sferra;
Mostri della mia fé ritratto vero,
Qual smossa mai strani accidenti fèro .
Tu medesmo terreno
Mai sempre abbracci, fai colto e comprendi,
E di lui per le viscere distendi
Radici grate al generoso seno:
I’ ad un solo soggetto
Ho fisso il spirito, il senso e l’intelletto.
Immagine che egli stesso illustra poi e commenta in prosa dichiarando quale sia a parer suo la vera costanza e fortezza d’animo: “perché lui non stima vera e compiuta virtù di fortezza e costanza quella che sente e comporta gl’incommodi, ma quella che non sentendoli le porta; non stima compìto amor divino ed eroico quello che sente il sprone, freno o rimorso o pena per altro amore, ma quello ch’affatto non ha senso dei degli altri affetti; onde talmente è gionto ad un piacere che non è potente dispiacere alcuno a distorlo o a far cespitare in punto. E questo è toccar la somma beatitudine in questo stato, l’aver la voluptà e non aver senso di dolore». Or è chiaro che questa “somma beatitudine” del Nolano, questa cessazione del dolore, questa voluttà, nel senso nobile di Epicuro, rassomiglia, molto più che le tristezze di Gesù e le lacrime di san Francesco, alla equanime felicita del savio buddista, alla calma serena dell’ antico buddhismo. E che non sia infatti tanto lontano dall’ideale del mendicante buddhista, lo dimostra Bruno stesso, quando nello Spaccio della bestia trionfante, II, 2, afferma, che «nessuno può gustare cosa sia la tranquillità di spirito, se non è povero o simile al povero” (G. De Lorenzo, India e buddhismo antico, Bari 1926, pp. 389 sg.).
La ricchezza tarpa le ali alla filosofia, perché non è possibile contemplare se si è accerchiati da «una turba di molti servi, senza contare i timori per i ladri o le noie di altro genere (OI, II, 677). Così la ricchezza, figlia dell’avidità, diventa una zavorra per lo spirito e non gli permette di elevarsi alla pura contemplazione oggettiva. Nessuno filosofo è mai stato un quattrinaio o un accumulatore di beni materiali. Chi vuole salire in cima a un’alta montagna cerca di alleggerirsi il più possibile e non si porta dietro pesanti bagagli. Per divenire occhio del mondo, vale a dire puro soggetto della conoscenza, Buddha, il più alto spirito dell’umanità come lo chiamano Schopenhauer e Wagner, rinunciò a tutte le sue ricchezze principesche e andò a meditare sotto una pianta. La stessa cosa farà venticinque secoli dopo, Wittgenstein: appena ritornato dalla prigionia di Montecassino, dove aveva subito l’influsso della regola benedettina, si disfece delle sue enormi ricchezze e si ritirò a fare l’insegnante elementare in sperdute località del Semering a sud di Vienna. Da questo punto di vista Bruno era avvantaggiato, essendo già povero in partenza; ma anche lui, per giungere alla pura contemplazione, dovette lottare con se stesso e con le proprie passioni. E’ quello che dice negli Eroici furori, dove il puro contemplatore è descritto come “morto al volgo, alla moltitudine, sciolto dalli nodi perturbanti de perturbanti sensi, libero dal carnal carcere della materia; onde non più venga come per forami e per fenestre la sua Diana [la verità] ma avendo gittate le muraglie a terra, è tutto occhio a l’aspetto de tutto l’orizonte. Di sorte che tutto guarda come uno, non vede più distinzioni e numeri, che secondo la diversità de sensi, come de diverse rime fanno veder ed apprendere in confusione” (OI, II, 1125).
Questi voli metafisici ricordano da vicino il sapiente indiano che trascende il saṃsāra e, squarciando il velo di Maya, diventa puro soggetto della conoscenza. Ma ci sono altre affinità tra la filosofia di Bruno e quella indiana per esempio il monismo, la metempsicosi o trasformazione palingenetica dell’anima individuale, la concentrazione per giungere alla vita intellettiva e anche l’amore per tutte le creature. E qui si pone la domanda: quali conoscenze aveva, Bruno, del pensiero orientale? Questo è un aspetto su cui i critici sorvolano, anche perché in Europa si continua a credere che “la filosofia sia sorta con i greci”. È un altro grave errore, che fa il paio con quello dell’antropocentrismo. Quando i primi presocratici incominciarono a filosofare, in India esisteva da tempo immemorabile un’alta sapienza. E non parliamo dell’Egitto. Nell’Oratio valedictoria lo stesso Bruno, delineando una genealogia della sapienza, mette i greci al quinto posto. Semmai si deve dire che i greci furono i primi, in Occidente, a conoscere la filosofia indiana e a subirne l’influsso. Ex Oriente lux! Non sappiamo se Pitagora sia stato veramente in India, come vuole la tradizione; è comunque certo che la sua dottrina ha molto in comune con la filosofia indiana, non solo nei tratti generali, ma anche nei particolari: metempsicosi, vegetarianismo, ruota delle rinascite e via di seguito. Occorre solo aggiungere che Pitagora è uno degli autori più citati da Giordano Bruno.
Notizie sicure o storicamente documentate sui contatti tra filosofi greci e indiani le abbiamo con la spedizione in India di Alessandro Magno. Celebre l’incontro di Onesicrito, ufficiale di Alessandro e allievo del filosofo cinico Diogene, con gli asceti indiani, più precisamente con i gimnosofisti. Uno di loro, chiamato Calano, si accodò all’esercito di Alessandro, ma poi per dimostrare la sua indifferenza al mondo e al dolore, salì spontaneamente su un rogo e morì tra le fiamme, mentre l’esercito macedone, tutto schierato, gli rendeva gli onori. Onesicrito non era l’unico filosofo al seguito di Alessandro in India: ce n’erano anche altri come il democriteo Anassarco di Abdera e Pirrone. Ma i maggiori ragguagli sulla filosofia orientale li fornì Megastene, che dal 302 al 291 a.c. fu ambasciatore greco presso il re indiano Gandragupta. Il suo libro ci è pervenuto solo a frammenti, ma presso gli antichi esso costituì la principale fonte di informazioni. Da allora in poi il pensiero indiano si diffuse sempre di più nella cultura alessandrina. Ancora più stretti furono i rapporti fra Oriente e Occidente in epoca romana, come dimostra, tra l’altro, il ritrovamento di monete romane in India. Perfino in ambito cristiano troviamo tracce della cultura indiana. Clemente Alessandrino parla dì Buddha. E ne parla anche san Gerolamo, dicendo che Buddha, secondo l’opinione dei gimnosofisti, sarebbe nato da una vergine. Del resto tutti i fondatori di religioni, o di movimenti spirituali che si possano in qualche modo configurare come religioni, vengono fatti nascere da una vergine. E se ne capisce il motivo; li si vuole ammantare di mito e di mistero. Niente di nuovo, quindi, nella nascita di Cristo. È un mito che troviamo già negli antichissimi templi di Luxor. Ma ancora più strano è che lo si trovi anche presso i popoli precolombiani: Chimaeman, la madre del dio Quetzacoatl, era una vergine. Ciò dimostra che in qualsiasi epoca, a qualsiasi latitudine. e sotto qualsiasi cielo l’uomo rivela sempre lo stesso bisogno di miti e le stesse fantasie.
Ma non divaghiamo e rientriamo in argomento.
A sant’Ambrogio, morto ventitré anni prima di san Gerolamo, viene attribuito il trattato De moribus Brachmanorum, dove il gimnosofista Dandamis impartisce una solenne lezione di saggezza a Onesicrito prima e poi allo stesso Alessandro, al quale dice: «Avrai tutto se non desidererai nulla. L’avidità è infatti madre della povertà». Poi parla della sua dieta vegetariana: «Non mi cibo delle viscere degli animali come i leoni, né nel mio ventre imputridiscono le carni dei quadrupedi e dei volatili e io non sono tomba di morti: una provvidenza naturale infonde in me tutti i frutti come una madre il latte». Tutto il libro è ispirato a un’alta sapienza.
I rapporti tra l’India e l’Europa si interruppero a partire dal medioevo, allorché i doganieri del cristianesimo posero l’embargo su tutto ciò che non sapesse di Bibbia, dicendo che il monopolio della verità lo avevano loro. E il cielo si oscurò. Ma per vie misteriose la sapienza orientale continuò a mettere delle propaggini. Ne possiamo trovare tracce, per esempio, nella dottrina dci càtari, i quali avevano una concezione dualistica simile a quella degli zoroastriani, credevano nel ciclo delle reincarnazioni e non uccidevano gli animali E’ anche sintomatico che Dante, parlando di San Francesco, la più ascetica e singolare figura del cristianesimo, lo metta in relazione con il Gange:
Di questa costa, là dov’ella frange
più sua rattezza, nacque al mondo un Sole
come fa questo talvolta di Gange;
però chi d’esso loco fa parole
non dica Ascesi [Assisi], che direbbe corto,
ma Oriente, se proprio dir vuole (Paradiso, XIX, 70-78)
Ho fatto questo excursus per dire che c’era una vasta letteratura da cui un lettore onnivoro come Bruno avrebbe potuto attingere notizie sulla filosofia indiana. Anche Erasmo, uno dei suoi maestri rivela notevoli cognizioni sull’India. A tutto ciò bisogna aggiungere il Corpus Hermeticum, che nel 1463 Marsilio Ficino tradusse «paucis mensibus», in pochi mesi, per il suo protettore Cosimo de’ Medici ansioso di abbeverarsi all’antichissima sapienza egizia. In realtà i testi attribuiti a Ermete Trismegisto furono scritti tra il secondo e il terzo secolo dopo Cristo, frutti di quella cultura «fortemente imbevuta di influenze magiche e orientali, che aveva costituito la versione gnostica della filosofia greca e il rifugio per quei pagani stanchi che andavano in cerca di una risposta ai problemi della vita, diversa da quella offerta dai primi cristiani, loro contemporanei» (Yates 1989, p. 14 ). Sicuramente in tali scritti confluirono anche elementi indiani, tanto più che nell’impero romano, «in cui tutte le religioni venivano tollerate, molte erano le occasioni di venire a conoscenze dei culti orientali» (ibid.).
Bruno aveva molta familiarità con il Corpus Hermeticum, di cui fece anche una traduzione del celebre e commovente lamento di Asclepio sulla decadenza dell’Egitto e della sua splendida religione. Ne riporto un passo:
O Egitto, Egitto, delle religioni tue solamente rimarranno le favole, anco incredibili alle generazioni future […]. Le tenebre si proponeranno alla luce, la morte sarà giudicata più utile che la vita, nessuno alzerà gli occhi al cielo, il religioso sarà stimato insano, l’empio sarà giudicato prudente, il furioso forte, il pessimo buono. E credetemi che ancora sarà definita pena capitale a colui che s’applicherà alla religion della mente [ … ]. Solo angeli perniciosi rimarranno li quali meschiati con gli uomini forzaranno gli miseri all’audacia di ogni male, come fusse giustizia donando materia a guerre, rapine, frodi e tutte altre cose. contrarie alla anima e giustizia naturale: e questa sarà la vecchiaia ed il disordine e la irreligione del mondo (OI, II, 785 sg.)
Per lui la vera religione è quella che favorisce la convivenza, anziché provocare discordie. Ai suoi occhi gli egizi e i romani furono grandi perché seppero contemperare il divino con la natura e la civiltà. Nel Corpus Hermeticum Bruno, a parte l’ammirazione per il favoloso Egitto, avrà certamente trovato degli spunti per la propria filosofia. Non bisogna però dimenticare che per lui, come s’è detto in precedenza, tutti gli esseri viventi sono uguali, in quanto animati dallo stesso spirito vivificatore. In questi testi ermetici, invece, si trovano frasi come questa: “Gli individui della razza umana sono diversi”. Insomma si tratta di testi che rispecchiano una cultura fortemente antropocentrica cosa che non si può dire per la cultura dell’antico Egitto. Riporto qui le parole dell’egittologo Alessandro Bongioanni: «All’essere umano non si attribuisce carattere di eccezionalità per le sue origini poiché esso condivide sostanzialmente con gli animali, come con gli dei, molte di quelle componenti che possono definire una “personalità”. Esiste però un problema di gradualità degli esseri viventi, ma ciò non impedisce che l’umanità possa trovar anche modestamente posto fra gli ippopotami e i coccodrilli, come si afferma già nei Testi dei Sarcofagi» (A. Bongioanni, Bestie o dei?, Torino 1996, pp. 101 sgg.). È quello che dice anche Giordano Bruno. Gli antichi egizi, però, non avevano l’idea della metempsicosi, ma semmai quella di un continuum. L’imbalsamazione dei corpi dimostra che essi credevano nella continuità dell’individuo, non nella trasmigrazione delle anime e nella loro reincarnazione in corpi diversi da quelli che esse avevano per così dire abbandonati. Il profondo mito della metempsicosi, poi mutuato dai greci, specialmente dal movimento religioso-filosofico che va sotto il nome di orfismo, sorse in India. Bruno conosceva bene la letteratura greca sull’argomento, ma è nella filosofia indiana che le sue idee trovano una sorprendente consonanza.
E non mi riferisco solo alla metempsicosi. Per esempio, certi punti della sua gnoseologia collimano perfettamente con la dottrina indiana dell’unità, quale troviamo esposta nelle Upaniṣad o anche nel buddhismo zen. Nella sua eccellente monografia sul filosofo, Jochen Kirchhoff scrive: «Nella dottrina dei bramini e nello Zen si tratta, in fondo, di accordare il singolo con l’assoluto». E come si arriva alla conoscenza dell’assoluto? Attraverso la meditazione. Per conoscere l’assoluto bisogna esserlo: «Si conosce solo ciò che si è. Questo pensiero viene espresso in molti punti dell’opera di Bruno» (Kirchhoff 1993, pp. 67 sg.). Anche la concezione ciclica che il filosofo ha della cultura o meglio della sapienza, con epoche di obnubilamento spirituale che si alternano a quelle rischiarate da qualche apportatore di luce, ricorda molto da vicino la filosofia indiana: “Nel buddismo la storia viene vista come un susseguirsi di possenti movimenti ondosi; e alla fine di una grande epoca, al punto di maggiore oscurità e corruzione, compare sempre, come salvatore, un Buddha, un Illuminato” (ibid., p. 80). In questo senso anche Giordano Bruno era o si considera un apportatore di luce. A proposito: chissà che sull’India non gli abbia riferito qualcosa anche Fabrizio Mordente, che vi aveva soggiornato per tre anni. Comunque sia, resta il fatto che la filosofia di Bruno è molto più imparentata con la sapienza indiana, soprattutto con il buddhismo, che non con la secca dogmatica cristiana e il razionalismo occidentale. Inoltre la filosofia di Bruno ride o sorride, mentre il cristianesimo è cupo, come dimostra a sua iconografia. Certe raccolte come ad esempio la Galleria di Brera a Milano, richiamano alla mente ora una sala mortuaria ora una anatomica. E che dire delle raffigurazioni del Giudizio Universale? Quella affrescata nel 1483 sulle pareti della chiesa di Montegrazie, nell’entroterra di Imperia, suscita orrore per la crudezza e il sadismo delle pene inflitte. Buddha invece sorride. E sorridono anche i suoi seguaci. In un’intervista alla Stampa del 6 marzo 1994, il Dalai Lama non fa che parlare di gentilezza, di sorrisi e di compassione. Alla fine gli viene posta la domanda: «Ma se c’è una fine del mondo, se non esiste più un mondo fisico, che cosa accade dell’anima reincarnata?». E lui, sempre con il sorriso sulle labbra, risponde: «Oh, ci sono altri pianeti, c’è un sacco di altri pianeti. È questo che noi pensiamo. Infiniti mondi». Dice anche che il buddhismo non accetta l’idea di un dio creatore, perché il mondo è eterno e infinito, e che la preghiera, da sola, non serve: ciò che veramente conta è il «karma, cioè le nostre azioni». Non vi sembra di sentir parlare Giordano Bruno? Egli dice esattamente la stessa cosa.
Pochi hanno. capito Giordano Bruno come Jochen Kirchhoff. Egli mette anzitutto in risalto la grande affinità della filosofia di Bruno con la sapienza orientale. Questo è un aspetto che non viene mai trattato dai commentatori. Accade la stessa cosa con Nietzsche: tutti parlano dell’«Eterno ritorno», come se si trattasse di chissà quale rivelazione, e a nessuno viene in mente che è un’idea presa dalla filosofia orientale. Perfino nella forma Nietzsche si rifà ai testi indiano. Ad esempio, tutti i discorsi del suo Zarathustra si chiudono con quel solenne: « Così parlò Zarathustra». Esattamente come quelli di Buddha, che si chiudono con «Così parlò il Sublime». In Germania ci sono sempre stati eccellenti studiosi di Bruno, come ad esempio Hans Blumenberg, recentemente scomparso. Egli è molto preciso e bene informato, però non esce dalla cultura occidentale in cui è impiantato. Così ciò che egli scrive su Bruno suona piuttosto freddo. Manca di slancio. Le sue antenne sono puntate sulla scienza, non sulla sapienza. La sua lingua è essenzialmente scientifica, e perciò egli sembra più adatto a parlare di Galilei che di Bruno. Viceversa Kirchhoff ha passione e slancio, il che gli permette di essere meglio in sintonia con lo spirito di Bruno. Proprio questo rende così appetibile 1a sua monografia, nella quale esalta non solo il filosofo, ma anche lo scienziato.
Che nessuno parli di Giordano Bruno quale scienziato non deve far meraviglia, perché la fama, come mi disse una volta Karl Popper a Vienna, è molto spesso un semplice caso. Così tutti considerano Galilei il padre dell’astronomia moderna e pochi sanno che Bruno lo aveva preceduto. E senza mai fare un esperimento o avere il cannocchiale, che del resto ai suoi tempi non esisteva ancora. Abbiamo già detto che egli fu il primo a parlare della rotazione del sole intorno al proprio asse. Ma elenchiamo altre sue strabilianti intuizioni: le stelle sono dei soli; anche al di là di Saturno, che allora veniva considerato l’ultimo pianeta, ci sono altri pianeti (Urano fu scoperto da Herschel nel 1781); anche gli altri soli possono avere i loro pianeti; tutti i corpi celesti ruotano intorno al proprio asse; il globo terrestre è appiattito ai poli; i pianeti non hanno un movimento rotatorio uniforme intorno al proprio sole. La loro orbita è ellittica e la velocità dipende dalla distanza dal sole. In altre parole la velocità con cui si muovono è inversamente. Proporzionale alla loro distanza dal sole. I pianeti esterni (Giove e Saturno) si muovono intorno al proprio asse più velocemente dei pianeti interni. Secondo Kirchhoff Bruno avrebbe anche intuito che i campi gravitazionali dei corpi celesti hanno una forma radiale. E va da sé che in quello che s’è detto sia implicita l’anticipazione delle tre leggi di Kepler. Si potrebbe continuare, ma fermiamoci qui perché credo che ci sia abbastanza per rimanere allibiti. Senza mai nominarlo, Galilei saccheggiò molte idee di Giordano Bruno. Quel silenzio non piacque a Kepler, che giustamente rimproverò allo scienziato pisano di non aver nominato tra i suoi predecessori l’«infelice Bruno». Forse tacque per vigliaccheria, dato che non era prudente parlare di un filosofo condannato al rogo dall’Inquisizione Cattolica. Così il suo silenzio fu doppiamente deplorevole. No, Galilei non aveva il carattere di Bruno. Si pensi anche al suo comportamento con la figlia: egli sapeva calcolare la distanza tra i corpi celesti, ma non quella tra due cuori. Inoltre si sottomise all’Inquisizione e riuscì a farla franca. E poi Galilei era solo uno scienziato empirico, non un filosofo. Quasi mai gli scienziati sono filosofi, perché indagano il come, non il perché dei fenomeni. Ma si può scoprire per via empirica la radice metafisica di tutte le cose? Il filosofo risponde di no. E sta proprio qui la differenza fondamentale tra Bruno e Galilei. Per il primo, come dice Kirchhoff, il cosmo è “un organismo, non un meccanismo; e perciò esso non potrà mai essere pienamente spiegato con la matematica” (1993 p. 18). Per lui la matematica è, nel migliore dei casi solo una scienza ausiliaria. Galilei, al contrario, crede che la matematica sia tutto, quasi la voce stessa della natura.
Riassumendo, Galilei non va oltre il fenomeno e crede che la verità ultima sia scritta in tutto ciò che è matematicamente misurabile e verificabile. Viceversa Bruno va oltre il fenomeno e getta lo sguardo negli abissi metafisici del mondo e della nostra esistenza. Percorre la via che va dalla realtà empirica all’idea. Non si stanca di ripetere che i sensi sono ingannevoli, perché o ci nascondono la vera natura delle cose o ce la presentano sotto false apparenze. La verità va intuita, non percepita, anche se la nostra mente non potrà mai conoscere la verità assoluta, come si legge anche in De docta ignorantia di Cusano, autore tanto ammirato da Bruno. Se l’enigma dell’esistenza fosse scritto nel fenomeno, a quest’ora lo si sarebbe decifrato non una, ma mille volte. Ma non è così. Nonostante tutti i progressi scientifici, i telescopi e i microscopi, quest’enigma resta insoluto e sta dinanzi a noi così intatto come dinanzi ai primi veggenti. Così noi viviamo e continueremo a vivere come avvolti da una nebbia con visibilità zero. Quelli che pronunciano con le narici allargate la parola scienza – e ce ne sono molti – rimproverano a Bruno scarsa conoscenza della matematica tradizionale Io non sono un matematico e me ne dispiace moltissimo; però non credo che Bruno non conoscesse la matematica del suo tempo. Anzi penso che la conoscesse benissimo. Però si rendeva conto che le formule matematiche, giuste o sbagliate che siano, non bastano per aprire le porte del mistero. Sorge anche il sospetto che ai fisici di professione dia fastidio il fatto che Giordano Bruno, senza mai fare un esperimento e con la semplice capacità intuitiva, abbia formulato per primo una grande quantità di cognizioni scientifiche e cosmologiche. Per fortuna c’è Lichtenberg, un professore di fisica sperimentale e di astronomia, il quale dice che le grandi scoperte sono state fatte dai «dilettanti»: Herchel era un organista, Tobias Mayer un autodidatta, Franklin un farmacista e via di seguito. La cultura, come l’amore, va cercata fuori delle sue istituzioni.
Bruno rivoluzionò anche l’estetica, sostenendo che la poesia non deriva dalle regole, come dicevano i regolisti aristotelici del secolo XVI, ma sono piuttosto le regole che derivano dalla poesia. Egli non scrisse un trattato specifico sull’argomento, però nelle sue opere si trovano osservazioni di grande importanza. In un celebre passo degli Eroici Furori si legge che «certi regolisti» di poesia considerano a mala pena poeta Omero e mettono nel novero dei “versificatori” Virgilio, Ovidio, Marziale, Esiodo e perfino Lucrezio, in quanto li esaminano secondo le regole della Poetica di Aristotele. Tali regolisti sono delle «vere bestie». Chi crede di diventare poeta solo in base alle regole non è altro che una scimmia della «musa altrui». A chi dunque servono le regole di Aristotele? Servono a chi, non avendo una musa propria, vuol «far l’amore» con quella degli altri. Hanno dunque torto «certi pedantacci dei tempi nostri», che escludono dal novero dei poeti coloro che, infischiandosi delle regole, creano della vera poesia. I pedanti (non son altro che vermi, che non san far cosa di buono, ma che son nati solamente per rodere, insporcare e stercorar gli altrui studi e fatiche; e non possendosi render celebri per propria virtude e ingegno, cercano di mettersi avanti o adritto o a torto, per altrui vizio e errore» (OI, II, 957 sgg.).
Le sue idee estetiche, come del resto quelle filosofiche e cosmologiche, non fruttificarono subito, anche perché dopo la condanna al rogo i suoi libri, messi all’Indice divennero estremamente rari: «Il Seicento, almeno in linea generale, continuerà a restare fedele alle vecchie concezioni. Soltanto nel Settecento si imboccherà la strada indicata da Bruno» (W. Tatarkiewiez, Storia dell’estetica, Torino 1980, vol III, p. 379) Si pensi allo Sturm und Drang, ma anche al Romanticismo: sono movimenti che Bruno aveva ampiamente anticipati. E non si dimentichi che Goethe era un suo grande ammiratore.
Giordano Bruno è stato anche il primo, nella filosofia moderna, a usare la parola monade nel senso di unità inestesa. Egli concepisce la monade come il minimum, cioè come l’unità indivisibile che costituisce l’elemento di tutte le cose. È la teoria che egli espone nei poemi latini De minimo e De monade. Leibniz possedeva tali opere e ne derivò sicuramente molte idee per la sua Monadologie, scritta in francese, nel 1714, per il principe Eugenio di Savoia. Sì, Jacobi vedeva giusto, quando si disse convinto che Gassendi, Cartesio, Spinoza, e Leibniz avevano tratto da Bruno “parti importanti dei loro sistemi”. Dopo di lui molti altri hanno detto la stessa cosa.
Bruno grandeggia anche come figura morale. Nessuno più di lui ha rivendicato la libertà di pensiero, fino a sacrificarne la vita. In un’epoca in cui pensare liberamente comportava il carcere e la morte egli levò alta e forte la sua voce contro gli oscurantisti. Fu il primo, in un’Europa dogmatizzata e impretagliata, a parlare di “libertà filosofica”. Certe sue bordate satiriche contro il cristianesimo, per esempio nello Spaccio sono ancora più corrosive di quelle di un Voltaire. Ma sono anche più radicali di quelle di un Nietzsche, perché non risparmiano neppure la figura di Cristo, satireggiato nelle vesti di Orione. Si ripensa piuttosto, per affinità, alle critiche anticristiane di un Celso o di un Giuliano Imperatore. Ma tutta la filosofia di Bruno e radicalmente anticristiana. Se infatti il mondo è eterno e infinito, che senso ha la favola di un dio personale che crei il mondo dal nulla? E quel dio, allora, chi lo avrebbe creato? Dal nulla non si crea nulla, questo è assodato. Nello Spaccio si legge che Cristo-Orione deve essere mandato tra gli uomini, affinché dia loro
«ad intendere tutto quello che le pare e piace, facendogli credere che il bianco è nero, che l’intelletto umano, dove li par meglio vedere, è una cecità; e ciò che secondo raggione pare eccellente, buono e ottimo, è vile, scelerato ed estremamente malo; che la natura è una puttana bagassa, che la legge naturale è una ribaldaria [ … ]. Persuaderà con questo che la filosofia, ogni contemplazione ed ogni magia che possa fargli simili a noi [ dèi], non sono altro che pazzie; che ogni atto eroico non è altro che vigliaccaria; e che la ignoranza è la più bella scienza del mondo, perché s’ acquista senza fatica e non rende l’animo affetto di melancolia» (OI, II, 803 sg.).
Beati i poveri di spirito!
In effetti il cristianesimo, fin dall’inizio, ha sempre considerato la cultura come una qualcosa da combattere. Il pagano Celso vissuto nel II secolo d.C. riferisce che i primi cristiani fuggivano il contatto con le persone colte:
“Nessuno che sia istruito si accosti, nessuno che sia sapiente, nessuno che sia saggio (perché tutto ciò è ritenuto un male); ma chi sia ignorante, chi sia stolto, chi sia incolto, chi sia di spirito infantile, questi venga fiducioso!».
Queste erano le persone degne del loro dio. Il loro fatturato propagandistico, se così si può dire, consisteva di donnicciole, di ragazzini e di scimuniti. Meravigliato, il dottissimo Celso si chiedeva come fosse possibile considerare un male l’essere istruiti e intelligenti:
“Che impedimento produrrebbe, questo, ai fini della conoscenza di Dio? Perché non dovrebbe essere piuttosto un vantaggio e un mezzo per pervenire meglio alla verità? Ma noi vediamo bene che anche quelli che nelle piazze vanno esponendo le loro screditate dottrine e poi fanno la questua non s’arrischierebbero mai ad avvicinarsi a un gruppo di uomini assennati e a esporre tra questi le loro meraviglie » (Celso, Contro i cristiani cit., p. 133).
E allora diciamolo un’altra volta: la religione, come le lucciole, ha bisogno dell’oscurità per risplendere: Ancora nella seconda metà dell’Ottocento, precisamente il 3 gennaio del l870, Pio IX, in una lettera, scongiurava Vittorio Emanuele II di fare tutto il possibile per «allontanare un altro flagello, e cioè una legge progettata, per quanto si dice, relativa alla istruzione obbligatoria». Sintassi a parte, non occorre essere anticlericali per riconoscere che questo non è bello. Ad ogni modo io preferisco il magnanimo Zarathustra, che nell’Avesta raccomanda soprattutto l’acquisizione del sapere. Pur dicendo che «chi acquista sapienza acquista dolore», Bruno non avrebbe scambiato uno solo dei suoi dolori con tutte le gioie di un gretto filisteo. S’intende? A lui s’attaglia perfettamente il verso del Petrarca: «Mille piacer’ non vagliono un tormento» (Canzoniere, son. CCXXXI). Oppure l’altro, sempre del Petrarca: «Altro diletto, che ‘mparar, non provo» (Trionfo d’amore, I, 21). E non arretrò mai dinanzi alla verità, anche quando essa faceva un volto terribile e minaccioso. Di quanta verità si è capaci? È questa la domanda che il civettuolo Nietzsche formula nel preannunciare verità orripilanti che poi, a scorno del lettore, non arrivano mai. Si tratta di un temporale a secco, come le sinfonie di Mahler. Si conosce solo ciò che si è. Bene, che cos’ era Nietzsche? Un professore baby pensionato, che civettava con l’Anticristo nei luoghi più rinomati del turismo internazionale. In tali condizioni, è difficile scorgere o vivere cose orripilanti. Egli visse sempre pieno di riguardi, come una dama in convalescenza; e un refolo di vento o uno sbalzo di temperatura lo atterrivano. Viceversa Bruno, la procellaria, visse sempre in mezzo alla tempesta e le verità che annunciava le sperimentava anzitutto su se stesso. Conosceva, perché era. Il suo processo gnoseologico lo raffigura mirabilmente nel mito di Atteone:
Alle selve i mastini e i veltri slaccia
Il giovan Atteon, quand’il destino
Gli drizz’il dubio ed incauto camino
Di boschereccie fiere appo la traccia.
Ecco tra l’acqui il più bel busto e faccia,
che veder poss’il mortal e divino,
in ostro ed alabastro ed oro fino
vedde; e ‘l gran cacciator dovenne caccia.
Il cervio ch’a’ più folti
Luoghi drizzav’i passi leggeri ,
ratto vorâro i suoi cani e molti.
I’allargo i miei pensieri
Ad alta preda, ed essi a me rivolti
Morte mi dàn con morsi crudi e fieri (OI, II, 1005)
Qual è il significato di tutto questo? Ce lo dice lo stesso Bruno: “Atteone significa l’intelletto divino alla caccia della divina sapienza, all’aprension della beltà divina” (ibid. 1006). Così il filosofo trascende la realtà empirica e si confonde con lo spirito dell’universo. Siamo a una specie di indiamento o di apocatastasi in chiave gnoseologica. E’ questo che egli chiama «eroico furore». Per la verità, s’intende. Il Tocco scrive: “L’amore intellettuale di Dio per Bruno come per Spinoza è la vittoria che si riporta su tutti gl’istinti che ci tengono attaccati alla vita, è la preparazione a quel Nirvana che Buddha molto prima dei neoplatonici poneva come ultimo fine non solo dell’attività morale, ma anche dell’esistenza stessa» (Tocco 1889, p. 394 ). E la stessa filosofia che ritroveremo poi in Schopenhauer, definito non a torto il Buddha occidentale. E c’è di più: proprio come il suo predecessore Bruno, Schopenhauer antepone a tutto la ricchezza di cuore e de mente, cosi come non esiste indigenza peggiore di quella morale e intellettuale.
Come già accennato, Bruno ha una concezione aristocratica della cultura e sa che solo pochi sono veramente capaci di pensare: «Pochi raggiungono la sapienza e la conoscenza delle cose, poiché pochi le ricercano con la dovuta serietà. Non ricerca la sapienza chi si dà da fare per arricchirsi e ricavarne guadagno [ … ]. Invece della sapienza, conseguono quel genere di stoltezza che ben si conviene adattare al fine che si erano proposti; la sapienza è una divinità che non vuole essere svilita, né si fa trovare da coloro che la ricercano indegnamente» (L 787).
Di qui le sue aspre invettive contro i mercenari della cultura che studiano solo per arrogarsi il titolo di dottore e di maestro. Ma questo non serve a niente: «Per quanto grande riconoscimento onore e consenso del volgo essi credano di aver conseguito, se è un mondo ottenebrato che tributa onori questi stolti godimenti possono allettare senza dubbio solo un animo vile» (ibid.).
Per lui come per Schopenhaer, esiste una sola aristocrazia: quella dello spirito. Il mondo si riflette in maniera diversa nella testa degli uomini. Dinanzi a uno stesso paesaggio, il poeta scioglie inni di gioia e il tamarro resta indifferente. La realtà è fatta di due parti: una soggettiva l’altra oggettiva Se quella soggettiva è scadente e appannata dalla stupidità, allora anche quella oggettiva diventa scialba e insignificante. Bruno dice questo in maniera molto bella: «La luce chiarissima del sole non risplende né brilla in maniera uguale per tutti coloro a cui giunge» (ibid. 304). Cosciente della propria grandezza egli si rende conto che i suoi libri non sono adatti, per così dire, ai sarti e ai barbieri: «questo libro è difficile, lo confesso, anzi per chi non sa leggere tale scrittura riconosco che è addirittura impossibile a leggersi. A chi non è aduso ad alcuna severa disciplina ed ancor più per chi è imbevuto di sole nozioni grammaticali, niente può essere facile, niente può essere facile, niente può essere raccomandabile se non olezza del sandalo della falsa letteratura» (ibid.,305 ). Chi non è capace di elevarsi alla pura contemplazione del bello e del vero rimanga nelle bassure: «A pochi riserviamo queste verità, stia lontano il volgo profano, né un laico ascenda al sacro monte[…]. Il degno amore del bello, il piacere del bene, l’ardore della virtù inviolata che infiamma il petto, le attrattive del vero, il pensiero della meritata lode ci condussero a questa meta da cui disprezziamo il giudizio negletto del fato e gli oscuri secoli pieni di sogni, di ombre erranti, di nubi vaganti per l’oscuro vuoto» (ibid., 659).
Superbia, orgoglio intellettuale? E sia: solo gli straccioni, dice Goethe, sono modesti. E si ripensa anche a quello che dice sarcasticamente Schopenhauer: sarebbe davvero strano che uno fosse un genio e non se ne accorgesse. Ma il disprezzo di Bruno per la folla ignorante, che ritorna spesso nei suoi scritti, non significa indifferenza per la condizione dei poveri figli della terra. Il suo amore era universale e si estendeva a tutte le creature. Tra l’altro, egli fu uno dei primi, se non addirittura il primo, a denunciare i metodi impiegati per la conquista dell’America:
Gli Tifi [qui il nome del pilota di Giasone sta a indicare Colombo, nominato poco prima, e i suoi compagni] han ritrovato il modo di perturbar la pace altrui, violar i patrii genii de le reggioni, di confondere quel che provvida natura distinse, per il commerzio, radoppiar i difetti, e gionger vizii a vizii de l’una e l’altra generazione, con violenza propagar nove follie e piantar l’inaudite pazzie ove non sono, conchiudendosi al fin più saggio quel ch’e più forte; mostrar novi studi, instrumenti ed arte de tirannizzar e sassinar l’un l’altro; per mercé de quai gesti tempo verrà, che, avendo quelli a sue male spese imparato, per forza de la vicissitudine de le cose, sapranno e potranno renderci simili e peggior frutti de sì perniciose invenzioni (OI, II, 31 ).
Oggi sappiamo che le parole di Bruno furono profetiche. Anche nel De immenso, lib. VII, cap. XVI, egli accenna a Colombo: «Il Ligure, ovvero l’avaro Etrusco, ha schiuso i serrami dell’Oceano perché L’impetuoso spagnolo potesse toccare l’America». Sarebbe ora, però, di sfatare la leggenda, sorta durante l’Illuminismo, secondo la quale sarebbero stati solo gli spagnoli a usare metodi crudeli contro gli indigeni del continente americano. Gli anglosassoni fecero di peggio e li sterminarono.
Per Bruno l’uomo “non è dotato di una saggezza maggiore di quella degli altri esseri”; anzi per molti aspetti è superato da quelli. Tuttavia l’uomo “è incorso in una sorte migliore, avendo avuto il dono della mano” (ibid., p. 303). Ma a che serve la mano se essa non è guidata dalla ragione e dalla saggezza? Quale uso mostruoso l’uomo ne abbia fatto non c’è neanche bisogno di dirlo. Nello Spaccio si legge che la provvidenza ha dato le mani all’uomo affinché non contemplasse senza operare enon operasse senza contemplare. Ma la storia umana e fatta quasi esclusivamente di azioni senza contemplazione. Così la mano diventa strumento di omicidi e di stermini; e non solo di uomini, ma soprattutto di altri esseri viventi. A Bruno tocca l’alto onore di riconoscere che gli animali sono fatti della nostra stessa sostanza. Ne viene di conseguenza che uccidere un animale non e diverso dall’ammazzare un uomo. L’uno è il tutto e il tutto è l’uno.
Bruno come Lucrezio, Plutarco e altri grandi spiriti illuminati, amava gli animali la cui innocenza gli faceva forse dimenticare la malvagità degli uomini; e la caccia gli doveva sembrare orribile quanto le guerre, di religione o non di religione. Egli ha parole di fuoco contro i cacciatori, che considera più vili e ignobili del boia, perché questi agisce se non altro in nome della legge, mentre quelli si divertono per capriccio a squartare le membra di un povero e innocente animale. A rafforzare questa sua sensibilità c’era anche la teoria della metempsicosi, da lui accolta e professata. Non si sfugge ai propri crimini: prima o poi, sotto questa o quella forma, in questa o in quella reincarnazione, bisognerà pagarne il fio? Questo è adombrato ancora meglio nella legge del karma degli indiani, la quale grava sul divenire escatologico dell’individuo.
Uno è lo spirito vivificatore che anima tutte le creature, ma quell’uno e anche immortale. Ed ecco allora che Bruno teorizza l’indistruttibilità del nostro vero essere, ossia della nostra radice metafisica: «L’anima razionale non teme la morte, anzi, talvolta spontaneamente ad essa tende, a lei spontaneamente va incontro. Essa conserva ogni sostanza, come eternità nella durata, come immensità nel luogo, come pienezza formale nell’atto» (L 421).
Ho cercato di dare un’idea della filosofia di Bruno e vorrei concludere con l’inizio del De immenso, che suona quasi come un testamento spirituale:
Alla mente che ha ispirato il mio cuore con arditezza d’immaginazione piacque dotarmi le spalle di ali e condurre il mio cuore verso una meta stabilita da un ordine eccelso, in nome del quale è possibile disprezzare e la fortuna e la morte. Si aprono arcane porte e si spezzano le catene che solo pochi elusero e solo pochi sciolsero. I secoli, gli anni, i mesi, i giorni, le numerose generazioni, armi del tempo, per le quali non sono duri né il bronzo né il diamante, hanno voluto che noi rimanessimo immuni dal loro furore. Così io sorgo impavido a solcare coll’ali l’immensità dello spazio, senza che il pregiudizio mi faccia arrestare contro le sfere celesti la cui esistenza fu erroneamente dedotta da un falso principio, affinché fossimo come rinchiusi in un fittizio carcere e tutto fosse costretto entro adamantine muraglie. Ma per me migliore è quella mente che ha disperso ovunque quelle nubi e ha distrutto l’Olimpo che accomuna gli altri in un’unica prigione dal momento che ne ha dissolto l’immagine, per cui da ogni parte liberamente si espande il sottile aere. Mentre m’incammino sicuro, felicemente innalzato da uno studio appassionato, divengo Guida, Legge, Luce, Vate, Padre, Autore e Via: mentre mi sollevo da questo mondo verso altri mondi lucenti e percorsi da ogni parte l’etereo spazio, lascio dietro le spalle, lontano, lo stupore degli attoniti (L 417 sg.).
A interrompere il suo volo e a soffocare la sua voce di cantore dell’infinito intervennero i preti, che, da bravi ministri della morte, lo tirarono giù e lo misero sul rogo.