In difesa della decrescita
Foto | Zbigniew Galucki
Iniziamo con dei brani tratti dagli ultimi numeri di Ecological Economics.
(Kallis – In defence of degrowth 2011)
[…] il problema non è la psicologia individuale degli “avari capitalisti”, ma un sistema che strutturalmente richiede un comportamento avido. La crescita non è una opzione, ma un imperativo derivante dalle istituzioni di base, cui l’uso della proprietà privata è collaterale, il debito, i tassi d’interesse e il credito e la competizione “vivi o muori” delle aziende per il profitto e le quote di mercato (le aziende che mirassero allo “stato stazionario” nei profitti sarebbero eliminate dal mercato dalla concorrenza).
(Alier et al Sustainable de-growth 2010)
Il paradigma economico dominante ricompensa “più” consumo invece di “migliore”, gli investimenti privati al posto dei pubblici, fatti su capitale manufatto piuttosto che naturale. Questa tripla distorsione auto-rinforzante si sono inchiavardate nella mentalità sociale per promuovere una nozione prometeica di crescita crematistica. Associato con il “mantra” liberale della supremazia dei mercati per promuovere la prosperità mediante un’ efficienza sempre maggiore, la prassi di questo modello economico si basa sulla privatizzazione dei beni e servizi pubblici tradizionali ed il rafforzamento della globalizzazione economica attraverso strutture di governance internazionale, del calibro del FMI, l’OMC e la Banca Mondiale.
Per, poi, risalire alla fonte della decrescita: Nicholas Geoergescu Roegen, che nel 1977 – Inequality limits and growth from a bioeconomic viewpoint diceva:
[…] la termodinamica, ci insegna non solo che la materia-energia non può essere creata o distrutta, ma anche che la materia-energia disponibile viene costantemente ed irreversibilmente degradata in “scarto”, una forma inutile per gli interessi umani. E’ in queste leggi della termodinamica che si trova la radice della scarsità economica. In fatti, la termodinamica è la fisica del valore economico, come disse Sadi Carnot nel suo memoir del 1824. Poiché in un mondo dove le leggi della termodinamica non valessero, la stessa energia potrebbe essere usata continuamente e nessun oggetto si consumerebbe mai.
Nell’articolo G-R enuncia delle ricette per ridurre l’impatto sul pianeta della dipendenza dell’uomo moderno dai comportamenti consumistici e, in definitiva, dalla crescita:
1) riportare la popolazione ad un livello che possa nutrsi con agricoltura biologica;
2) abbandonare il principio dello scontare il futuro alla base della teoria delle risrse naturali di Hotelling: l’umanità come entità quasi immortale non può ridurne l’importanza come un individuo singolo;
3) invece di applicare il principio della massima utilità, le politiche in materia di risorse naturali, in relazione alle generazioni future, devono impiegare quello della minimizzazione dei rimorsi.
(C’è anche chi dice che sono tutte stronzate..)
Pensando che non lo siano (in a leap of faith)…e cercando strumenti utili a capire (e gestire) la transizione presente, troviamo l’utile analisi delle politiche possibili quando un paese si trova DOPO IL PICCO DEL PETROLIO di Jörg Friedrichs in Peak oil impact on different parts of the world, il quale identifica 3 possibilità, basandosi su esempi storici del XX secolo:
- Predatory militarism: Japan, 1918–1945
- Totalitarian retrenchment: North Korea, 1990s
- Socioeconomic adaptation: Cuba,1990s
Andando direttamente…a Cuba, leggiamo:
Cuba ha affrontato un serissimo stop delle forniture di energia nel 1990, simile a quella vissuta dalla Corea del Nord. Semmai, lo shock cubano fu più grave: la CIA stima la diminuzione delle importazioni di carburante tra il 1989 e il 1993 nell’ordine del 71% (citato in Briquets Diaz e Perez Lopez, 2000: 250). Gli approvvigionamenti energetici sovvenzionati da parte del blocco sovietico cessrono completamente.
Nel 1990, Fidel Castro fu costretto a proclamare l’emergenza nazionale, denominandola “Periodo Speciale”. La crisi devastò l’intera economia cubana. Le macchine arruginivano per mancanza di combustibile e pezzi di ricambio. Il trasporto pubblico e privato piombarono nel caos. I lavoratori avevano difficoltà ad arrivare su posto di lavoro. Le fabbriche e le famiglie sono state colpite da imprevedibili black-out in tutta l’isola (Perez-Lopez, 1995: 138-140). Come nella Corea del Nord, gli effetti più dolorosi si sono fatti sentire nel settore alimentare. L’apporto nutrizionale del cubano medio – in particolare per proteine e grassi – è sceso notevolmente al di sotto del livello dei bisogni umani fondamentali (Alvarez, 2004:154-169). I consumatori fecero ricorso alla buccia di pompelmo tagliata come surrogato della carne bovina, alcune persone cominciarono ad avere polli nei loro appartamenti o ad allevare bestiame sui balconi (Perez-Lopez, 1995:138).
Tuttavia, la gente di Cuba non conobbe la malnutrizione o la carestia; i senza casa e le gangs di ragazzi di strada che si nutrono di cadaveri non apparvero nelle città cubane. Così come violenza, crimine e disperazione non divennero enedemici […] un netto contrasto con la situazione della Corea del Nord, dove la carestia ha ucciso il 3-5% della popolazione.
Il vero miracolo fu fatto dalla popolazione cubana che, contro tutte le avversità, andò avanti grazie alla coesione sociale al livello locale. Nonostante Cuba sia fortemente urbanizzata, il tipico barrio è un villaggio urbano. Le famiglie sono strettamente inglobate nella vita di vicinato. La maggior parte delle famiglie hanno vissuto nella stessa casa per generazioni e si tratta di famiglie estese, con zii, e cugini.
Non si vuole idealizzare: le famiglie rimasero nelle loro case perche il regime congelò la proprietà individuale dopo la Rivoluzione e le persone sono ammassate in spazi ristretti perche è tutto quello che hanno. Il regime ha investito nello sviluppo comunitario non tanto per creare un collante sociale quanto per mantenere il controllo politico. Tuttavia, [il risultato] è un fatto che la maggior parte dei Cubani può contare sulla propria famiglia, amici e vicini. Questa solidarietà locale, o ‘capitale sociale’, ha aiutato i Cubani durante il “periodo speciale”.
Le conoscenze tradizionali sono state decisive per nutrire la popolazione. Nonostante quasi tutti i terreni furono collettivizzati dopo la Rivoluzione del 1959, circa il 4% dei contadini Cubani mantenne i loro appezzamenti. Un altro 11% venne organizzato in cooperative private (Burchardt, 2000). Le fattorie indipendenti erano più resistenti alla crisi delle fattorie dello Stato poiché operavano con meno energia e componenti chimici. I contadini indipendenti avevano mantenuto le conoscenze tradizionali che ora potevano essere riscoperte. Altri contadini si mossero dalle fattorie statali verso le aree urbane, diffondendo le conoscenze utili all’autosufficienza alimentare e all’agricoltura urbana.
Quello dell’agricoltura urbana è un movimento fai-da-te, facilitato dalla disponibilità di conoscenze tradizionali combinate con tecniche organiche e la rustica ingenuità, caratteristica dei Cubani.
Appezzamenti abbandonati tra palazzi di cemento o nelle periferie divennero orti biologici. La popolazione occupò gli spazi disponibili vicino alle case per coltivare frutta e ortaggi. Alla metà degli anni 90 si contavano centinaia di Club Agricoli registrati solo a L’Avana. Come racconta un coltivatore: “...scambiammo i semi, le varietà, e le esperienze. Conquistammo un senso ed uno spirito di aiuto reciproco, solidarietà ed imparammo la produzione agricola” (citato in Carrasco ed altri, 2003:98).
Ovviamente, la svolta di Cuba verso un’agricoltura “a basso input” non avvenne grazie ad una coscienza ecologica, ma alla stretta necessità.
Dalla seconda metà degli anni 1990, quando la situazione economica è migliorata e gli inputs industriali sono tornati ad essere disponibili, Cuba ha iniziato un ritorno all’agricoltura industriale. E’ comunque incoraggiante notare che, durante la prima metà degli 1990, i cubani sono riusciti a gestire ed attenuare un terribile shock dell’offerta di risorse, grazie ad un eccezionale ethos comunitario. Il confronto con la Corea del Nord dimostra che ciò non fu cosa di poco conto.
Per approfondire perche la transizione/picco del petrolio ed altri materiali, vedi: Entropia, picco del petrolio e Filosofia Stoica